Jean Antoine Étienne Vachier detto Championnet

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(Valence, 13 aprile 1762 – Antibes, 9 gennaio 1800)

Generale francese, protagonista della nascita della Repubblica partenopea e simbolo, nel Vallo di Lauro, della cancellazione della memoria di un popolo.

Iniziò la sua carriera arruolandosi giovanissimo per combattere nel grande assedio di Gibilterra dal 1779 al 1783.

Si mise in luce durante la Rivoluzione francese. Nel 1798 fu nominato comandante in capo dell’Armata di Roma che doveva proteggere la Repubblica Romana dall’esercito del Regno di Napoli e dalla flotta britannica.

Il 5 dicembre 1798 sconfisse l’esercito napoletano a Civita Castellana. Avanzò verso Napoli devastando e saccheggiando.

L’11 gennaio 1799 impose a Sparanise un gravoso armistizio a Francesco Pignatelli vicario di Ferdinando IV di Borbone. Al suo arrivo a Napoli

«fece ingresso magnifico pubblicando editto in questi sensi: Napoletani! Siete liberi. Se voi saprete godere del dono di libertà, la repubblica francese avrà nella felicità vostra largo premio delle sue fatiche, delle morti e della guerra […] provvedendo alla quiete ed alla felicità dei cittadini, svaniscano gli spaventi della ignoranza, calmino il furore del fanatismo».

Al contrario delle attese, il popolo di Napoli e di parte delle province insorse violentemente contro i francesi invasori opponendo una forte resistenza all’avanzata delle truppe.

Championnet riuscì a schiacciare la resistenza. Circa 3.000 popolani furono uccisi negli scontri.

Conquistato il regno, il 23 gennaio, consentì la nascita di una fragile Repubblica. Per la sua intolleranza verso ogni forma di opposizione cadde in disgrazia, fu perfino arrestato il 24 febbraio 1799, e sostituito dal generale Étienne Jacques Joseph Alexandre Macdonald.

Nel mese di aprile del 1799, un gruppo di sostenitori della causa sanfedista si misero ad abbattere gli alberi della libertà nel Vallo di Lauro. Nient’altro che degli alberi, o dei pali, innalzati nelle piazze principali in cima ai quali venivano sistemati i simboli della repubblica.

Oggi siamo abituati a sopportare, senza reagire, oltraggi ben più gravi ai simboli della nostra patria. Allora il gesto fu inteso come un segno preciso di ribellione. Il responsabile dell’abbattimento fu arrestato e fucilato.

Ciò non bastò a fermare le provocazioni di quella parte della popolazione che spingeva per la rivolta.

Allora, il 26 aprile, fu mandato il generale Giuseppe Schipani con una squadra di soldati a cavallo: «ma costui avendo cercato ridurle con l’esortazioni confortare i repubblicani e magnificare i beni della libertà non ne cacciò nulla. Giunto a Palma altro non fè che bruciarvi pomposamente due ritratti del re e della regina».

Allo Schipani, un valoroso, pur se anziano, ex-generale dell’esercito borbonico, che pagherà con la vita l’appoggio dato alla Repubblica, bruciare i simboli degli avversari politici sembrò una ritorsione equilibrata: quadri per alberi. A Lauro, purtroppo, le cose andarono diversamente.

Giunto alla torre di Marzano da cui gli armigeri del feudatario normalmente sorvegliavano il confine, il generale vi trovò un migliaio di persone in armi che sembravano intenzionate a ostacolare l’azione delle truppe repubblicane e, così facendo, agevolare l’avanzata dell’armata del cardinale Ruffo.

La carica che comandò, per disperdere gli insorgenti in armi, provocò la morte di undici persone tra la popolazione di Marzano e nessuno tra i ribelli, che se ne erano fuggiti al primo tiro di schioppo.

La punizione era stata pesante. Forse poteva bastare. Ma per i francesi che portavano le feu sacré de la liberté non fu sufficiente.

Il comandante in capo dell’armata di Napoli, Macdonald, si rivolse risoluto alla Commissione esecutiva:

«Les communes […] où l’arbre de la liberté a été abattu et la cocarde rouge arborée, seront soumise à une contribution extraordinaire et assujetties à une exécution militaire».

Per punire la ribellione, il 30 aprile, fu inviato il generale Championnet alla testa di una colonna composta da più di tremila fanti e cavalieri.

Gli insorgenti, tirarono qualche colpo di archibugio da lontano e poi si diedero alla fuga su per le montagne, seguiti dalla maggior parte della popolazione. I soldati entrarono nel paese e, senza incontrare resistenza alcuna, incendiarono e distrussero tutto ciò che poterono.

Trucidarono anche 17 persone, infermi, storpi, monache, coloro che non avevano potuto o voluto mettersi in salvo.

A sera, le fiamme del castello dei principi Lancellotti, dall’alto del primo sasso, illuminarono tutta la valle: «ardevano tetti, mura, porte, biblioteche, quadreria, mobili, biancheria, bellissimi arazzi, tutto fu ridotto in cenere e lasciato un mucchio di rovine come al dì di oggi. Il più grave danno cagionato dall’incendio fu la perdita dell’archivio, questo conteneva molte carte trasportate ivi da Roma».

Sono le dolenti parole di Donna Giuseppina Massimo, moglie di Ottavio III, riportate nel suo manoscritto Storia della famiglia Lancellotti. Conosciamo l’entità dei danni grazie a un certificato, in carta legale di grani 12 del Regno delle Due Sicilie, conservato nell’archivio del Castello:

«Certifico io sottoscritto, Cancelliere del Comune […] come sotto il dì trenta aprile 1799 (millesettecentonovantanove) dalla truppa francese fu messo ad universal sacco e fuoco questo comune, ove rimasero incendiate cinque chiese, due monasteri, i principali palazzi dell’ex Feudatario, del ridetto comune, e d’altri più cospicui proprietari, e quasi la maggior parte degli edifici. Nello stesso incendio rimasero preda delle fiamme le migliori antiche schede di diversi Regii Notari e gli archivi del Comune, della Parrocchia e del cennato ex feudatario e quasi tutte le scritture e carte che si conservavano nelle private case. Dal che ne fo fede come di atto pubblico e notorio, e consacrato nella Istoria del Regno e di cui ne offrono dolorosa memoria gli infelici avanzi di detti Pii Luoghi ed edifici del Comune, ed ex Barone non più restaurati dalle loro rovine».

Marco Palasciano nei suoi Paralipomeni a Prove tecniche di romanzo storico ha immaginato il momento in cui il principe Lancellotti viene informato dell’incendio:

«il maggiordomo fa toc toc sullo stipite, varca la soglia, porge al principe una lettera su un vassoio (di coccio). Dal paese. Che strano: gli han risposto così presto…? Exit il maggiordomo; il principe si cava dal taschino il pince-nez, se lo sistema, fa sbocciar la carta:

― Buon dio!

― Che dixe?

― È andato in fumo il castello.

― Dio can!

― Tutti i quadri! gli arazzi! i documenti! i libri!… Ahimè, tutti i libri!

― Meno quelli – vuol consolarlo il pedante – rimasti nella vostra casa in Roma.

― Macché! li avevo or ora fatti traslare in paese, per l’umido del Tevere subdolo complice del proliferare di micòfiti e lepismæ saccarinæ, non bastassero gli acari! Oddio mi sento male» .

Di fronte a un trauma personale e collettivo, una tragedia che minacciava di dissolvere l’identità della comunità, scattarono meccanismi di produzione dell’oblio. Alcune vicende furono dimenticate altre manipolate e trasfigurate in una visione eroica. Donna Giuseppina Massimo nella sua Storia scrisse:

«Il castello fu attaccato da’ francesi che venivano respinti con un coraggio di cui parla la storia. Quattrocentoquattordici Francesi vi perirono».

E nell’affresco della sala d’armi del castello, realizzato al tempo della ricostruzione, due paffuti angioletti reggono, tra dense nuvole di fumo, un drappo su cui si legge:

«ARX VIRTUTE INCOLARUM TER REPULSIS INIMICIS TANDEM IGNE DEVORATUR»

cioè, respinti i nemici tre volte per il valore degli abitanti, la rocca, infine viene divorata dalle fiamme.

Il ricordo falsato ugualmente incide negativamente sulla trasmissione della memoria ma non come la repressione militare che in un colpo solo riduce in cenere archivi e biblioteche e azzera il patrimonio storico e artistico di una comunità.

Nella Reggia di Versailles ho trovato un ritratto che immortala Championnet tra i grandi di Francia. Il viso rotondetto incorniciato dai capelli lunghi, gli occhi chiari e tranquilli. Solo le labbra, contratte, come a disapprovare ciò che sta vedendo, increspano la sua bonomia.

Era entrato in Napoli per portare la libertà ma come spesso è accaduto nella storia il desiderio di rinnovamento, la brama di progresso si associano alla negazione e alla cancellazione del passato. Championnet nel 1780 fu nominato comandante in capo dell’Armata delle Alpi.

Un’armata raccogliticcia che fu decimata da un’epidemia di tifo e poi sconfitta a Genola il 4 novembre 1799 dagli austro-russi. Contagiato anche lui, dall’epidemia che aveva falcidiato le sue truppe, morì, accresciuto di gloria ma povero di fortuna, il 9 gennaio del 1800.

Le distruzioni Championnet hanno provocato danni irreparabili alla memoria del Vallo.

Per decenni le rovine annerite dagli incendi hanno testimoniato la perdita irreparabile del passato.

I laurini hanno dovuto aspettare ben 150 anni per poter colmare quel vuoto e riallacciare i fili della memoria cittadina. Verso la metà del Novecento, un giovane Pasquale Moschiano cominciò a spulciare le carte di archivi abbandonati e malridotti.

Coltivava in solitudine la sua passione per la storia e ne insegnava i rudimenti ai suoi piccoli allievi. Nel 1955 pubblicò il suo primo opuscoletto, “Un episodio del Brigantaggio a Moschiano”.

In quel momento non erano disponibili libri sulla storia locale, né vi era una bibliografia che potesse indirizzare le ricerche. Alcune notizie si potevano estrapolare da libri dedicati alla storia di altre città, come il testo del Remondini Della nolana ecclesiastica storia risalente al 1747 o il più recente, diciamo così, testo del Vincenti La contea di Nola, datato 1861.

Moschiano comincio ad occuparsi dei fatti del 1799 in una sua relazione datata 1957: ”Attraverso il Vallo di Lauro, briciole di storia di casa nostra”. Briciole di storia appena, ma bastarono a riaprire uno spazio per la memoria.

La studiosa tedesca Aleida Assmann sostiene che

«la storia di un luogo non finisce con il suo abbandono o con la distruzione; esso conserva i relitti materiali che diventano elementi della narrazione, a loro volta punti di riferimento di una nuova memoria culturale. Questi luoghi necessitano comunque di spiegazioni: il loro valore deve essere attestato anche dalla tradizione orale. La continuità spezzatasi con la conquista, l’abbandono e l’oblio non è riproducibile a posteriori, ma, attraverso la mediazione del ricordo, può essere ricostruita».

La memoria è la possibilità di disporre delle conoscenze passate e sono le persone, siamo noi, attraverso il ricordo, a creare questa possibilità.

Le persone possono rompere l’incanto che tiene prigioniere le cose, portarle alla luce e impedire che cadano per sempre nel nulla. Proust, nelle prime pagine de “La strada di Swann”, descrive un personaggio che, nell’assaporare un pezzetto di madeleine inzuppato nel tè, viene travolto dal flusso dei ricordi e riportato alla sua fanciullezza passata nel paesino di Combray, a un tempo ritenuto ormai perduto:

«quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo». 

Un piccolo episodio, un gesto, possono contribuire a restituirci il passato.

Pasquale Moschiano, con le sue briciole, ha schiuso una possibilità, con i suoi scritti ha iniziato a formare una nuova memoria culturale, capace di riappropriarsi dei momenti della storia passata.

Nella sua lunga e operosa vita ha pubblicato altri libri sui fatti del Novantanove, oltre a cinquecento articoli e numerosi libri e opuscoli su altri argomenti di storia e di cultura locale. E lo ha fatto senza mai smettere di seguire, incoraggiare e sostenere ogni iniziativa culturale dei suoi concittadini.

Lo spazio della memoria che lui ha aperto, nel tempo, ha spinto altre persone a intervenire sull’argomento. Cominciò il sindaco di Lauro Colucci col dedicare una strada ad Agostino Casoria, il frate ucciso dagli insorgenti mentre cercava di mediare con i francesi per ottenere l’indulto per la popolazione;

poi, nel 1977, Brenno Benatti dipinse il murales naif “Incendio al castello Lancellotti”; nel 1986 Ariosto Prudenziano pubblica Il casale di Visciano e la rivoluzione del 1799;

nel 1999, Monica Giunto pubblica la Repubblica diffusa, il 1799 nel Vallo di Lauro e Pino de Maio rappresenta sotto il castello l’opera teatrale “La ballata di Eleonor”;

poi a distanza di tempo arrivano gli articoli di Pasquale Colucci “Le lapidi e la stora”, di Vincenza Schiavone “Il ‘cancelliere’ Casimiro Bonavita”, di Anna Bonavita sul suo avo Casimiro, di Marco Palasciano con i suoi “Paralipomeni lauretani”, di Maria Addeo con “Storia e memoria”, di Francesco Barra con “Il Vallo dopo il 1799”.

Dove prima non c’era nulla, uno spazio vuoto, un buco della memoria, un’assenza di voci, è fiorito nel tempo un ampio articolato e approfondito discorso a più voci. Il tutto scaturito dall’impegno di una persona semplice, normale, un giovane maestro elementare con la passione per la propria terra.

Pure noi che animiamo il progetto wikiVALLOpedia siamo persone semplici, normali, spinte dalla passione per la propria terra per la ricomposizione della memoria delle Comunità del Vallo di Lauro.

Ci sono tanti splendidi monumenti del Rinascimento che sono stati costruiti riutilizzando le pietre dell’Età classica. Per questo motivo abbiamo scelto di recuperare il ricordo delle persone, dei luoghi, delle storie del Vallo di Lauro partendo da Championnet, per ironia della storia, per utilizzare la biografia del personaggio simbolo della distruzione dei monumenti di Lauro come prima pietra per costruire una nuova memoria culturale.

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Autore del post: Wikivallopedia

wikiVALLOpedia recupera il ricordo delle persone, dei luoghi, delle storie del Vallo di Lauro e promuove lo sviluppo di una nuova memoria culturale. La maggior parte dei testi, delle storie e dei racconti provengono dall'archivio del prof. Pasquale Moschiano Scopri di più

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